Come il bilinguismo può proteggere dalla malattia di Alzheimer
GIOVANNI ROSSI
NOTE
E NOTIZIE - Anno XV – 11 febbraio 2017.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di
studio dei soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Le persone bilingue, ossia quelle che impiegano oltre alla madrelingua un secondo idioma per comunicare nella vita di tutti i giorni, compiono un esercizio cognitivo-comunicativo che attiva vari circuiti e sottosistemi neuronici cerebrali. Teoricamente una tale attività neurale supplementare dovrebbe avere effetti biologicamente rilevanti sulla fisiologia cerebrale, potendo incidere anche sull’andamento di processi patologici. Studi epidemiologici recenti riportano che la pratica del bilinguismo nell’intero arco della vita si associa ad una età di insorgenza più avanzata della demenza.
Se parlare due lingue abbia realmente un effetto protettivo sul cervello è stato argomento di dibattito, e non meraviglia che in genere sia prevalso lo scetticismo, soprattutto perché non si conoscono i meccanismi mediante i quali si presume venga esercitata l’azione di contrasto allo sviluppo della demenza. Proprio per individuare tali meccanismi, Daniela Perani e colleghi dell’Università “Vita-Salute San Raffaele” di Milano hanno condotto uno studio, ottenendo risultati di notevole rilievo.
(Perani D., et al. The impact
of bilingualism on brain reserve and metabolic connectivity in Alzheimer’s
dementia. Proceedings of the National
Academy of Sciences - Epub ahead of print doi:10.1073/pnas.1610909114, 2017).
La provenienza degli autori è la seguente: Unità di Neuroimmagine Molecolare e Strutturale, Divisione di Neuroscienze, Istituto Scientifico San Raffaele, Milano (Italia); Dipartimento di Neurologia e Unità di Medicina Nucleare, Ospedale San Raffaele, Milano (Italia); Unità di Medicina Nucleare, Azienda Sanitaria dell’Alto Adige, Bolzano (Italia); Clinica della Memoria, Dipartimento Geriatrico, Azienda Sanitaria dell’Alto Adige, Bolzano (Italia); Dipartimento di Fisica, Azienda Sanitaria dell’Alto Adige, Bolzano (Italia).
L’impegno cognitivo per contrastare il declino mentale era praticato su base empirica già nell’antichità e in proposito, come ricorda spesso il nostro presidente, si menziona Cicerone che dopo gli ottanta anni cominciò a studiare due nuove lingue. L’esercizio di memoria dei retori greci, e poi del mondo latino, si basava sulle mnemotecniche che, di fatto, erano esercizi di memoria linguistica e cognizione verbale.
L’intimo rapporto fra linguaggio e pensiero è presente in misura crescente nella consapevolezza culturale dei secoli successivi fino alle epoche più recenti. La nozione di linguaggio verbale quale codice di senso, strumento del pensiero, mezzo di espressione e comunicazione, è senz’altro utile ed efficace in molte branche di studio; tuttavia, è evidente che considerare la lingua indipendentemente dalla cognizione costituisca un artificio di utilità che, proseguendo l’antica tradizione culturale che concepiva e descriveva col nome di facoltà l’insieme di proprietà, funzioni e abilità, separa due manifestazioni dell’attività psichica per molti aspetti intimamente connesse.
L’importanza del linguaggio per il pensiero è al centro della riflessione filosofica del ventesimo secolo: la fiducia nella possibilità di ricondurre a ragione il pensiero con un migliore uso logico della lingua ha affascinato molti filosofi. Rudolf Carnap pubblicò nel 1931 il saggio Superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio[1]; per i neopositivisti, come per Wittgenstein, la metafisica ha origine dal funzionamento incontrollato del linguaggio[2].
Ma l’influenza più diretta sulla concezione dei rapporti fra comunicazione verbale e cognizione viene dagli studi neurologici, psichiatrici, neuropsicologici e psicologici.
Lo psichiatra e psicoanalista francese Jacques Lacan, che riteneva l’inconscio strutturato come un linguaggio, per illustrare la sua convinzione della priorità della parola su altri aspetti della vita mentale, impiegava il celebre prologo del Vangelo di San Giovanni apostolo: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…”. Il suo pensiero ebbe una discreta influenza su psichiatri e psicologi europei[3], anche a motivo delle sue osservazioni sull’ontogenesi del linguaggio, sintetizzate nel suo celebre aforisma che rovesciava un luogo comune: l’uomo prima parla, poi pensa.
Lo sviluppo delle neuroscienze cognitive ha favorito il superamento della barriera fra linguaggio e cognizione che si era andata affermando in neuropsicologia quale diretta conseguenza del metodo neurologico anatomo-clinico di localizzazione, fin dagli studi pionieristici di Broca e Wernicke. Un’interessante introduzione alla ricca e complessa varietà di nozioni che fonda la prospettiva attuale circa il sostrato funzionale dei rapporti fra comunicazione e cognizione, si trova nel volume multiautore curato da Michael Gazzaniga ed edito dal Massachusetts Institute of Technology (MIT), The Cognitive Neurosciences, al quale si rimanda per ogni approfondimento. È interessante notare che le teorie sull’origine evolutiva del linguaggio verbale umano possono tutte essere ricondotte a due concezioni: 1) uno sviluppo derivato dall’espansione cognitiva neocorticale; 2) un’origine indipendente e parallela da unità funzionali collegate alle segnalazioni comunicative vocali.
Si può osservare, dunque, che il potente stimolo cognitivo costituito dalle attività cerebrali connesse col linguaggio, già intuito nell’antichità, trova sostegno scientifico nelle più recenti acquisizioni. Cosa ben diversa è ipotizzare che tali funzioni possano ostacolare un processo neuropatologico degenerativo grave e irreversibile quale quello che causa la malattia di Alzheimer. Si comprende, perciò, quanto sia controversa l’ipotesi che vuole l’uso abituale di due lingue nei rapporti sociali quale fattore protettivo nei confronti della demenza neurodegenerativa.
Come è noto, la riserva cognitiva (CR, da cognitive reserve) previene il declino delle facoltà psichiche connesse con l’intelletto e ritarda la neurodegenerazione; secondo un’interpretazione di recenti dati epidemiologici, il bilinguismo di un’intera vita può agire come CR, ritardando lo sviluppo della demenza di circa 4,5 anni.
Per verificare l’ipotetica azione protettiva dell’uso di due lingue nel corso di tutta la vita sullo sviluppo della neurodegenerazione alzheimeriana, Daniela Perani, Jubin Abutalebi e colleghi hanno studiato mediante tomografia ad emissione di positroni (PET) con 18-fluorodeossiglucosio l’encefalo di persone affette dalla grave forma di demenza neurodegenerativa. Analizzando il metabolismo cerebrale e la connettività neurale, i ricercatori ritengono di aver identificato il meccanismo responsabile dell’effetto positivo del bilinguismo.
In particolare, è stato studiato in vivo, in pazienti alzheimeriani confrontati con volontari sani, il metabolismo cerebrale quale indice diretto della funzionalità sinaptica e della densità delle sinapsi, e la connettività neurale nel suo profilo patologico comparato con quello normale. Il campione era costituito da 85 pazienti affetti da demenza ricondotta diagnosticamente a malattia di Alzheimer, e fra loro omogenei per durata della malattia; 45 erano bilingue tedesco/italiano e 40 parlanti una sola lingua. Da rilevare che le persone bilingue erano mediamente più anziane di 5 anni dei loro pari che conoscevano la sola lingua madre.
Lo studio funzionale di medicina nucleare, in accordo con quanto previsto dai ricercatori del San Raffaele e coerentemente con i modelli di CR, ha rilevato che l’ipometabolismo cerebrale era più marcato nel gruppo degli individui bilingue affetti da malattia di Alzheimer.
Si può affermare che l’analisi di connettività metabolica supportava in maniera molto chiara ed evidente l’effetto neuroprotettivo del bilinguismo, mostrando un’accresciuta connettività nel controllo esecutivo e nella rete di default (DMN, da default mode network) nei pazienti bilingue, al confronto con i pazienti parlanti un solo idioma.
Un altro aspetto interessante, che conferisce supporto a questa interpretazione dei dati, consiste nella verifica degli effetti del parlare due lingue in rapporto al grado effettivo di pratica bilinguistica esercitata nel corso della vita. A tale scopo, i ricercatori hanno stimato quantitativamente nel tempo l’uso dei due idiomi da parte dei volontari ed hanno creato le categorie di elevato, moderato e basso uso, per accertare un eventuale effetto di questa differenza. L’analisi ha rivelato che il grado di esercizio effettivo era significativamente correlato con la modulazione funzionale in reti neurali di importanza cruciale per le funzioni cognitive, suggerendo un rapporto stretto fra l’uso di due lingue, la RC e i meccanismi di compensazione.
Gli esiti di questo studio indicano che la pratica del bilinguismo durante tutta la vita agisce da potente CR nella demenza ed esercita effetti neuroprotettivi nei confronti della neurodegenerazione, attraverso l’attività neurale. Ritardare l’insorgere della demenza è una priorità assoluta nelle società contemporanee e l’evidenza in vivo fornita dai ricercatori del San Raffaele dovrebbe stimolare iniziative quali programmi sociali ed interventi di supporto per l’istruzione bilinguistica o multi-linguistica e il mantenimento dell’uso di una seconda lingua nelle persone di mezza età, quale strumento di prevenzione per ritardare l’inizio di una patologia per la quale non esiste ancora una vera cura farmacologica.
L’autore della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla
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[1] Traduzione italiana in Il neoempirismo (a cura di A. Pasquinelli), UTET, Torino 1969.
[2] Cfr. Wittgenstein L., Tractatus Logico-Philosophicus (1921), tr. it. G. A. Conte,
Einaudi, Torino 1983.
[3] La relazione intitolata Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, presentata al Congresso tenutosi a Roma il 26 e 27 settembre 1953, fu il primo dei saggi che attrassero l’attenzione internazionale, fino al celebre Seminario frequentato anche da studiosi di formazione umanistica.